Alla Global March to Gaza hanno aderito persone da 54 paesi. Gente comune dall’Europa, dall’Iran, dal Giappone, dal Marocco, dagli USA, e da molti altri paesi.
L’obiettivo era attraversare a piedi, insieme, il Sinai da Al Arish a Rafah, camminando per tre giorni, per poi accamparsi lì, chiedendo l’apertura di un corridoio umanitario.
La grande adesione a questo progetto è stata un successo straordinario. Non solo in termini numerici: gente diversa per nazionalità, religione, etnia, orientamento politico, genere, estrazione sociale ed età ha stabilito un’alleanza in un sentire comune e compassionevole. Questo al prezzo di sacrifici personali che a volte sono diventati notevoli.
Andare fisicamente fino al confine con Gaza, la presenza corporea di una comunità umana così vasta, sarebbe stato un gesto simbolico di grande valore anche se, come è ovvio, non avrebbe avuto effetti concreti nell’alleviare le sofferenze dei palestinesi.
Per quanto ne so, è la prima volta nella storia che un movimento civile, non appoggiato da nessun governo, si forma superando le divisioni tradizionali.
Se è vero che questo è stato reso possibile dall’esistenza dei social media, senza dubbio è anche vero che c’è un sentire comune abbastanza maturo da valicare le molte frontiere. Questo potrebbe essere un segnale importante di un cambiamento profondo.
La marcia verso Gaza dipendeva dall’autorizzazione concessa dalle autorità egiziane, condizionate dalle pressioni internazionali, soprattutto israeliane, e da un governo poco incline, per usare un eufemismo, a concedere il suo territorio a libere manifestazioni.
Nei giorni precedenti la partenza, all’interno del gruppo italiano dei partecipanti, si è molto parlato di un’autorizzazione non ancora concessa, ma neppure negata ufficialmente. Si diceva di trattative diplomatiche segrete tra gli organizzatori internazionali e l’Egitto. E si affermava in modo netto l’intenzione di non creare incidenti, di rispettare l’autorità egiziana. In quei giorni si sono accavallate varie ipotesi su questo tema: autorizzazione si, no, parziale, ecc.
La direttiva è stata di andare comunque al Cairo entrando come turisti, cancellando dai telefoni ogni traccia di partecipazione.
Il giorno della partenza, il 12 giugno, è arrivato in questo clima di forte incertezza.
Sono arrivato all’aeroporto in un intreccio di chiamate e messaggi che informavano dei fermi e dei respingimenti, appena accaduti all’aeroporto del Cairo, di chi era arrivato prima di noi. La polizia egiziana aveva anche prelevato partecipanti dagli alberghi per poi espellerli. Ho saputo poi che ci sono stati fermi anche di 24 ore. Le comunicazioni parlavano anche dei molti dubbi sull’opportunità di partire. So che gruppi interi hanno rinunciato a farlo. Antonietta Chiodo, la dirigente del gruppo italiano, era in Egitto già da due giorni. Ha inviato la mattina del 12 una comunicazione su quello che stava accadendo. Ho ricevuto una telefonata da un funzionario dell’unità di crisi della Farnesina, diceva dei respingimenti e mi sconsigliava di partire.
Ci siamo infine trovati in aereo, in sette o otto. Mentre eravamo in volo al Cairo il console italiano aveva trattato con l’autorità egiziana, ottenendo di sospendere i respingimenti. Siamo così arrivati all’ostello, che ci avrebbe ospitato quella notte, senza problemi.
La direttiva dei nostri vertici in quel momento era di pernottare li due notti, ma, prima di potersi registrare, la stessa direttiva era cambiata. Saremmo dovuti partire la mattina dopo, alle 8.
Prima di notte, però, giunge un altro ordine: incontrarsi con il gruppo italiano alle 10, partenza alle 12.
Gli assembramenti di più di 10 persone sono proibiti in Egitto. Senza un autorizzazione, anche un incontro di qualche decina di persone è un atto potenzialmente pericoloso. Questo incontro, la mattina del 13, si è poi sfilacciato: alcuni di noi si sono seduti a un caffè, altri erano dispersi, altri in un vicino appartamento.
Siamo poi riusciti a trovarci, con il gruppo del centro Italia, forse in una trentina, nell’ appartamento dove saremmo rimasti fino a sera.
Intanto un altro gruppo simile, dal Lazio, viveva la stessa nostra situazione, ma noi non abbiamo avuto nessun contatto con loro. L’ho saputo al ritorno in Italia da un incontro fortuito.
La mattina è passata in un susseguirsi di direttive contraddittorie che arrivavano, si suppone, dalla dirigenza nazionale.
La partenza per Al Arish era stata cancellata, si andava a Ismailia, sempre alle 12, in autobus. La partenza per Ismailia era posticipata e ognuno doveva arrivarci per conto suo, nel pomeriggio. La partenza per Ismailia era cancellata, anzi, non ci si doveva muovere. Evitare di farsi notare, spostarsi solo in piccoli gruppi di due o tre. La Freedom Flottilla diceva che andare a Ismailia era del tutto sbagliato.
Un messaggio di Antonietta Chiodo ribadiva di non muoversi assolutamente.
Intanto la polizia, sempre in questa caotica mattina, stava salendo le scale del palazzo dove ci trovavamo. C’è stato un momento di panico e ognuno diceva la sua, ma in realtà non c’era altro da fare che restare lì. La polizia ci controllava, era chiaro, anche io la mattina presto ero stato fermato per strada da poliziotti in borghese. Alla fine, forse grazie al fatto che eravamo al nono piano, la polizia non arrivò. Nelle vicinanze c’erano decine di furgoni antisommossa della polizia pronti a intervenire. Erano lì per la nostra marcia.
Tre delegazioni nazionali, Grecia, Spagna e Canada, avevano intanto deciso di andare comunque a Ismailia per creare un presidio. Altre notizie però dicono che c’erano tutte le delegazioni meno quella italiana. Alcuni di noi, frustrati dall’essere rinchiusi in un appartamento, decidono di andare.
Nel pomeriggio si susseguono notizie da Ismailia: duecento persone bloccate dalla polizia in un area di servizio, arrestate e picchiate. Il gruppo a Ismailia circondato dalla polizia, beduini che pestano i manifestanti. Anche Carola Rackete, europarlamentare, e un nipote di Nelson Mandela, sono fermati mentre cercano di arrivare a Ismailia.
Chiusi nell’appartamento, ci si chiede cosa fare e si cerca di allargare lo sguardo per vedere l’insieme della situazione. Una riflessione interrotta a più riprese da notizie che giungono sui canali Telegram e Signal. La notte precedente Israele ha bombardato l’Iran, una notizia che si sovrappone a quelle locali. C’è addirittura chi dice che Israele ha bombardato perché aveva paura di noi della marcia!
Via social, incominciano le polemiche tra chi dice che si deve andare a Ismailia, che bisogna fare qualcosa di concreto, e chi vuole rispettare la legalità egiziana e la fiducia nelle direttive.
Ci sono contatti con alcuni giornalisti che cercano di capire cosa succede. In un collegamento video viene rilasciata un’intervista. I media si attivano e questo sembra essere un successo: parlano di noi.
Poco dopo in una discussione tra Antonietta Chiodo e un’altra attivista, che sostiene chi è andato a Ismailia, viene detto che quell’azione ha fatto imbestialire gli egiziani, che hanno rotto ogni trattativa, e ha fatto chiudere ogni possibilità di arrivare a Rafah e negoziare l’apertura di un canale umanitario.
Nei fatti arrivare a Rafah sembrava già escluso, così come l’apertura di un canale umanitario.
Andare a Ismailia era la voglia di fare qualcosa, e questa voglia è accusata ora di protagonismo, voglia di farsi un selfie.
È arrivata la sera. Le discussioni continuano in una crescente stanchezza.
Io ho già deciso di tornare in Italia e mi chiedo se non sarebbe meglio restare per tentare di dire, tra le molte voci divergenti, che anche se non ci siamo potuti incontrare fisicamente, la partecipazione globale è un risultato importante, molto più importante di alcuni articoli che parlano degli incidenti all’aeroporto, a Ismailia o dell’essere controllati dalla polizia.
Scrivo mentre sono in aereo e, incredibilmente, è solo il 14 giugno.
All’arrivo incontro fortuitamente una partecipante di ritorno. Anche lei porta il discorso sugli incidenti e sulle polemiche.
Le ultime notizie dicono che Sumud Convoy, un folto gruppo di attivisti nord africani che viaggia in autobus, è stato fermato al confine con la Libia. Sembra che alla sola delegazione polacca sarà concesso di raggiungere Rafah, con un autobus scortato, andando e tornando in giornata. Forse qualcuno potrà unirsi.
Purtroppo la marcia è stata frantumata, ci sono state varie divisioni interne oltre alle difficoltà causate dall’assenza di autorizzazioni.
Molti partecipanti si augurano che si possa valorizzare comunque il senso di questa azione.
