Sperling & Kupfer 2012, pp. 393
Wangari Maathai fu la prima donna africana a ricevere il premio Noble per la pace, nel 2004, per il suo contributo a uno sviluppo sostenibile, alla democrazia e alla pace.
Questo libro è un’autobiografia, che parte dalla sua infanzia, dalla sua vita in un villaggio del Kenya dominato dall’impero britannico fino al 1963. L’esistenza di Wangari è un lungo percorso accidentato, difficile, pieno di forza e di speranza e, in alcuni casi, fortunato. È una testimonianza del colonialismo inglese, delle ingiustizie subite sistematicamente dalla popolazione kenyota, è una testimonianza delle tradizioni della sua gente, i Kikuyo, uno dei quarantadue gruppi etnici del Kenya, è una testimonianza del post-colonialismo, di come il governo kenyota ha svenduto le sue terre e le sue foreste ai grandi proprietari occidentali, provocando un impoverimento delle comunità contadine peggiore dell’epoca coloniale, perché le foreste erano una risorsa di acqua, legname e cibo. Racconta di come una serie di casi fortunati uniti alla sua determinazione e capacità la portano a frequentare la scuola, quando il destino di una bambina nella sua famiglia era di imparare solo i lavori di casa. Il suo percorso di studi la porterà successivamente a ricevere una borsa di studio per studiare biologia in un’università americana.
Dal momento del suo ritorno in Kenya inizia la sua lunga lotta: per la dignità delle donne sistematicamente discriminate nell’università e nella società, per la libertà dalle tradizioni familiari, che la portano a una dolorosa separazione dal marito, per costituire, nel 1977, il Green Belt Movement, un movimento di donne proveniente dalle campagne che negli anni ha piantato milioni di alberi. Tra le altre lotte vittoriose il libro narra di quella per salvare il parco Uhuru, un polmone verde nel centro di Nairobi dove il governo voleva costruire una mastodontica torre per uffici e attività commerciali. Wangari incominciò a opporsi a quella mostruosità essendo praticamente sola, fu offesa e diffamata, fu tradita dai suoi collaboratori, si trovò a ospitare in casa le ottanta impiegate del Green Belt Movement per sette anni per lo sfratto intimidatorio dagli uffici di proprietà governativa, ma non si fermò. Scrive: “Durante quella battaglia, sentii fortemente che stavo facendo la cosa giusta, al di là dell’opinione pubblica. Perciò, non vivevo nella paura. Non vado a cercarmi i guai, ma se li ho li affronto anima e corpo. So anche che la situazione non si risolverà nel giro di qualche ora e non mi imbarco in un’altra sfida finché la prima non è conclusa. Forse questo è stato il mio punto di forza. Ho visto assai di frequente che, se mantieni la tua posizione, se sei convinto che sia la cosa giusta da fare e ci metti tutto te stesso, è davvero sorprendente quello che può succedere.”
È un grande insegnamento. È una vita africana, che racconta di una cultura che nel nostro eurocentrismo sentiamo lontana, a causa di un’asimmetria storica che dovremmo comprendere e risolvere in noi stessi.